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LA GREPPIA DIVENNE PRESEPIO
PO UN RITO PAGANO
VI VOLLE ABOLIRLO
Prendete un pollo, ma che sia ruspante,
tolta la pelle, a pezzi sia tagliato,
nella teglia sia posto e mantecato
con origano e rosmarin* fragrante,
limone, olio, un poco di pimento,
sale ovviamente ed ivi sia lasciato
per due ore allincirca e rivoltato
una o due volte in questo condimento.
Passato poi il pollo in pan grattato,
di nuovo nella teglia sia riposto
ed infornato a gradi centottanta
(i minuti occorrenti son cinquanta)
a rosolarsi, ma non è un arrosto.
A voi di giudicare il risultato!
Tilde Richelmy
* triturato
Il pollo di Natale
nel sonetto...
P
resepe significa alla lettera mangiatoia cioè
la greppia in cui fu deposto Gesù Bambino
alla sua nascita. Sono gli Evangelisti Luca e
Matteo i primi a descrivere la natività: il Bambino nac-
que in una grotta perché non cera posto in albergo e fu
posto in una umile mangiatoia. Gli angeli annunciarono
la Nascita ai pastori che accorsero ad adorarlo, mentre
una stella cometa in cielo guidava i passi dei Re Magi,
che dal lontano oriente portavano doni al neonato che i
prodigi del cielo annunciano già re.
La leggenda narra che il presepe, come lo intendiamo
noi moderni, è unidea di San Francesco DAssisi: nella
notte di Natale del 1223 ebbe luogo la prima rievocazione
vivente della Natività a Greccio (Rieti). Probabilmente il
primo presepe, con statuine che raffigurano scene e perso-
naggi della Natività, si deve ad Arnolfo di Cambio nel
1283. La tradizione del presepe si diffuse lentamente poi; fu
lordine francescano e successivamente i domenicani e i
gesuiti che diedero, non solo in Italia, dallAlto Adige alla
Sicilia, ma in tutta lEuropa centrale impulso alla costru-
zione di presepi divenuti talvolta permanenti, sia a figure
mobili, sia fissi, in pietra o in terracotta, spesso di gigante-
sche dimensioni, tipici dellItalia centro-meridionale.
Il presepe da principale e, a volte, unico testimone delle
festività legate allavvento natalizio, era stato completa-
mente sostituito dallalbero addobbato per ricomparire ulti-
manente sempre più spesso.
Questo ritorno alla tradizione fa nascere spontanee alcu-
ne domande. Che il desiderio di tornare alle tradizioni del
nostro passato, della nostra cultura, della nostra storia mani-
festi il disagio di chi vive un sentimento di deprivazione e
contemporanea inadeguatezza di fronte ai continui stimoli
di un mondo che dà sempre più importanza allapparenza?
Che il recuperare una tradizione innocua e a buon
mercato evidenzi la voglia di rivincita nei confronti di una
società dove il mercato è la reale divinità sul cui altare si
sacrifica qualsiasi principio e ideale? Che il recuperare una
tradizione a forte connotazione regionale significhi in qual-
che modo affrancarsi da schemi culturali e comportamen-
tali suggeriti in modo seducente (ma talvolta imposti)?
Riflettiamo su queste domande mentre prepariamo il
nostro presepe e buon Natale a tutti!
I
rrinunciabili, squisiti e ricchi di significati simboli-
ci, stanno per arrivare sulle tavole imbandite i
famosi piatti della tradizione. Perché si prepara-
no? Solo per il piacere di riassaporare i gusti delle feste?
Oppure per altri motivi? Vediamo di capire se dietro ogni por-
tata si nasconde... un qualcosa che non conosciamo.
Capitone
Simbolo di fertilità, si mangia la sera della Vigilia, fritto insieme ad
altro pesce, preferibilmente molluschi, oppure cotto al pomodoro e
olive, accompagnato da patate lesse o da una polenta fumante.
Crostacei
Sinonimo di prosperità, si presentano tra Natale e Capodanno, come
classici antipasti da buffet. Gamberi, astici e aragoste vanno bolliti e
poi arricchiti con salse più o meno speziate.
Cotechino
Vuol dire abbondanza. Non deve mai mancare la notte di San Sil-
vestro lessato in salsa verde o con uno zabaione che faccia colore.
Lenticchie
Lo sanno tutti, portano soldi. Ne facciamo indigestione il 31 dicem-
bre, per propiziarci un anno nuovo danaroso.
In umido con aglio, carote e sedano e in coppia con lo zampone for-
mano un piatto saporitissimo.
Tacchino
Grasso per comè, non può che significare ricchezza. È il secondo più
indicato per il pasto di mezzogiorno del 25.
Il modo ideale di cucinarlo è arrosto con contorno di cavoletti al
burro.
Salmone
Chi lo sceglie la sera del 24 o per il pranzo del primo gennaio avrà
successo. Accontenta i palati più raffinati: va servito a fettine, su tar-
tine e crostoni, affumicato, o a tranci lessato e poi guarnito di sotta-
ceti e maionese.
Frutta secca
Porta fortuna! Fatene incetta per tutte le feste: vi terrà compagnia
nelle chiacchiere di rituale tra una tombola e unaltra. Si consuma al
naturale con la frutta di stagione, o anche come ingrediente per insa-
late e macedonie.
I cibi della tradizione
Natale, ma tanto fu lo sdegno tra i romani che per poco non
scoppiò una rivolta. La ragione di questo tentativo di sop-
pressione, comunque ce la spiega il Belli con la sua argu-
zia.
Ustacchio, la viggija, de Natale, tu méttete de guar-
dia sur portone, de cuarche monzignòre o cardinale e
vedrai entrà sta pricissione Mo entra una cassetta de tor-
rone, mo entra un barilozzo de caviale, mo er porco, mo
er pollastro, mo er cappone e mo er fiasco de vino padro-
nale. Poi entra er gallinaccio, poi labbacchio, loliva
docce, er pesce de Forano, lojo, er tonno, e languilla de
Comacchio. Inzomma, inzino a notte, a mano a mano, tu
lì, taccorgerai,padron Ustacchio, quantè divoto er
popolo romano.
La festività dà luogo anche a varie celebrazioni popo-
lari e domestiche. A Roma, fino al 1870, la Messa di Nata-
le, celebrata alle 12 nella Basilica di Santa Maria Maggio-
re dove, al termine della funzione, sia i canonici, sia i can-
tori ricevevano una tazza di brodo consumato con allin-
terno un petto di cappone. Successivamente la Messa
venne celebrata in San Pietro. Particolarmente adorato dai
romani il Bambinello dellAracoeli, scolpito a Gerusalem-
me su legno dulivo del Gethsemani dal un francescano
nel XV secolo, custodito nella basilica di Santa Maria in
Aracoeli in Campidoglio.
Dal sacro al profano. Una caratteristica romana è rap-
presentata dal Cottio, una sorta di mercato del pesce
allingrosso (ed anche al dettaglio), nato nel 542 nella zona
della pescheria, oggi forse via in Piscinula, che rappresen-
tava unattrazione particolare per i romani. Alti prelati,
nobili signori e plebei si ritrovavano alla vigilia della
Vigilia di Natale, gomito a gomito, per assistere alla ven-
dita del pesce appena scaricato dai barconi attraccati al
porto di Ripa grande, e alle dispute tra i venditori e gli
acquirenti. Questi ultimi, in gran parte erano cuochi di
nobil case, bottegai, albergatori e tavernieri che cercavano
di accaparrarsi i pezzi più pregiati o la specie di pesce più
richiesta (il cefalo), per accontentare i loro signori, i clien-
ti e gli avventori.
E, visto che siamo entrati nella vigilia, vediamo cosa
appariva sulle tavole dei romani. Va ricordato che un seco-
lo fa cera vigilia stretta: cioè non si faceva colazione e, per
pranzo, cera ben poco: pane, minestra di verdure e frutta.
La cena si consumava alle venti in punto, per dar modo a
tutti di poter raggiungere le varie basiliche o San Pietro ed
assistere alla funzione della Notte Magica.
La cena era, logicamente a base di pesce. Sapriva con
una serie di antipasti preparati con alici marinate, aringhe
affumicate, caviale (rosso o nero), ostriche, soutè di cozze,
vongole o, per i tavoli più modesti, telline raccolte ad
Ostia. Non mancava mai languilla carpionata o in salsa di
capperi, il capitone ed il cefalo bollito. Con il suo brodo si
cuocevano i quadrucci, o, come primo piatto cerano i
broccoli cotti con larzilla oppure, per chi non poteva fare
a meno della pasta, le fettuccine con le acciughe, meglio,
però, gli spaghetti col tonno. Ancora pesce per secondo:
dal baccalà in umido alla romana, a quello fritto, in guaz-
zetto o in agrodolce. E le seppie con i piselli, alla romana,
anguille al lauro, i barbi (pesci di Tevere), al forno. Per
contorno i broccoli lessi, la cicoria, le puntarelle, zucchine
marinate. Niente dolce, era vigilia stretta.
Il pranzo di Natale, dopo la funzione in San Pietro, sa-
priva con gli antipasti a base di pesce e di carne, faceva
seguito un brodo in tazza consumato, i cappelletti in
brodo ed il pasticcio di maccaroncini con carne tritata.
Lesso di cappone e gallina davano il via alla fila dei
secondi piatti in cui primeggiava il famoso fritto alla
romana composto da mele, zucchine, melanzane, brocco-
li, carciofi, cervello e animelle. Poi arrosti di manzo,
cotolette a scottadito pesce in salsa o al tegame (baccalà).
Pangiallo e torrone mollo con i pistacchi chiudevano il
pranzo di Natale. Il vino? Dei castelli, il cannellino e il
dolcetto di Olevano Romano. (GFP)
La sua storia
Ida Brini