13 Siamo anche su Internet www.igeanews.it ... e dal prossimo numero i Forum cultura    •    cultura    •    cultura    •    cultura    •    cultura LA GREPPIA DIVENNE PRESEPIO PO’ UN RITO PAGANO VI VOLLE ABOLIRLO Prendete un pollo, ma che sia ruspante, tolta la pelle, a pezzi sia tagliato, nella teglia sia posto e mantecato con origano e rosmarin* fragrante, limone, olio, un poco di pimento, sale – ovviamente – ed ivi sia lasciato per due ore all’incirca e rivoltato una o due volte in questo condimento. Passato poi il pollo in pan grattato, di nuovo nella teglia sia riposto ed infornato a gradi centottanta (i minuti occorrenti son cinquanta) a rosolarsi, ma non è un arrosto. A voi di giudicare il risultato! Tilde Richelmy * triturato Il  pollo  di  Natale nel  sonetto... “P resepe” significa alla lettera mangiatoia cioè la  greppia  in  cui  fu  deposto  Gesù  Bambino alla sua nascita. Sono gli Evangelisti Luca e Matteo i primi a descrivere la natività: il Bambino nac- que in una grotta perché non c’era posto in albergo e fu posto in una umile mangiatoia. Gli angeli annunciarono la  Nascita  ai  pastori  che  accorsero  ad  adorarlo,  mentre una stella cometa in cielo guidava i passi dei Re Magi, che dal lontano oriente portavano doni al neonato che i prodigi del cielo annunciano già re. La leggenda narra che il presepe, come lo intendiamo noi  moderni,  è  un’idea  di  San  Francesco  D’Assisi:  nella notte di Natale del 1223 ebbe luogo la prima rievocazione vivente  della  Natività  a  Greccio  (Rieti).  Probabilmente  il primo presepe, con statuine che raffigurano scene e perso- naggi  della  Natività,  si  deve  ad  Arnolfo  di  Cambio  nel 1283. La tradizione del presepe si diffuse lentamente poi; fu l’ordine  francescano  e  successivamente  i  domenicani  e  i gesuiti che diedero, non solo in Italia, dall’Alto Adige alla Sicilia, ma in tutta l’Europa centrale impulso alla costru- zione di presepi divenuti talvolta permanenti, sia a figure mobili, sia fissi, in pietra o in terracotta, spesso di gigante- sche dimensioni, tipici dell’Italia centro-meridionale. Il presepe da principale e, a volte, unico testimone delle festività  legate  all’avvento  natalizio,  era  stato  completa- mente sostituito dall’albero addobbato per ricomparire ulti- manente sempre più spesso. Questo ritorno alla tradizione fa nascere spontanee alcu- ne domande. Che il desiderio di tornare alle tradizioni del nostro passato, della nostra cultura, della nostra storia mani- festi il disagio di chi vive un sentimento di deprivazione e contemporanea inadeguatezza di fronte ai continui stimoli di un mondo che dà sempre più importanza all’apparenza? Che  il  recuperare  una  tradizione  innocua  e  a  buon mercato evidenzi la voglia di rivincita nei confronti di una società dove il mercato è la reale divinità sul cui altare si sacrifica qualsiasi principio e ideale? Che il recuperare una tradizione a forte connotazione regionale significhi in qual- che modo affrancarsi da schemi culturali e comportamen- tali suggeriti in modo seducente (ma talvolta imposti)? Riflettiamo  su  queste  domande  mentre  prepariamo  il nostro presepe e buon Natale a tutti! I rrinunciabili, squisiti e ricchi di significati simboli- ci,  stanno  per  arrivare  sulle  tavole  imbandite  i famosi “piatti della tradizione”. Perché si prepara- no? Solo per il piacere di riassaporare i “gusti delle feste”? Oppure per altri motivi? Vediamo di capire se dietro ogni por- tata si nasconde... un qualcosa che non conosciamo. Capitone Simbolo di fertilità, si mangia la sera della Vigilia, fritto insieme ad altro pesce, preferibilmente molluschi, oppure cotto al pomodoro e olive, accompagnato da patate lesse o da una polenta fumante. Crostacei Sinonimo di prosperità, si presentano tra Natale e Capodanno, come classici antipasti da buffet. Gamberi, astici e aragoste vanno bolliti e poi arricchiti con salse più o meno speziate. Cotechino Vuol dire abbondanza. Non deve mai mancare la notte di  San Sil- vestro lessato in salsa verde o con uno zabaione che faccia “colore”. Lenticchie Lo sanno tutti, portano soldi.  Ne facciamo indigestione il 31 dicem- bre, per propiziarci un anno nuovo danaroso. In umido con aglio, carote e sedano e in coppia con lo zampone for- mano un piatto saporitissimo. Tacchino Grasso per com’è, non può che significare ricchezza. È il secondo più indicato per il pasto di mezzogiorno del 25. Il modo ideale di cucinarlo è arrosto con contorno  di cavoletti al burro. Salmone Chi lo sceglie la sera del 24 o per  il pranzo del primo gennaio avrà successo.  Accontenta i palati più raffinati: va servito a fettine, su tar- tine e crostoni, affumicato, o a tranci lessato e poi guarnito di sotta- ceti e maionese. Frutta secca Porta  fortuna! Fatene incetta per tutte le feste: vi terrà compagnia nelle chiacchiere di rituale tra una tombola e un’altra. Si consuma al naturale con la frutta di stagione, o anche come ingrediente per insa- late e macedonie. I cibi della tradizione Natale, ma tanto fu lo sdegno tra i romani che per poco non scoppiò una rivolta. La ragione di questo tentativo di “sop- pressione”, comunque ce la spiega il Belli con la sua argu- zia. “Ustacchio, la viggija, de Natale, tu méttete de guar- dia  sur  portone,  de  cuarche  monzignòre  o  cardinale  e vedrai entrà sta pricissione Mo entra una cassetta de tor- rone, mo entra un barilozzo de caviale, mo er porco, mo er pollastro, mo er cappone e mo er fiasco de vino padro- nale.  Poi  entra  er  gallinaccio,  poi  l’abbacchio,  l’oliva docce, er pesce de Forano, l’ojo, er tonno, e l’anguilla de Comacchio. Inzomma, inzino a notte, a mano a mano, tu lì,   t’accorgerai,padron   Ustacchio,   quant’è   divoto   er popolo romano.” La festività dà luogo anche a varie celebrazioni popo- lari e domestiche. A Roma, fino  al 1870, la Messa di Nata- le, celebrata alle 12 nella Basilica di Santa Maria Maggio- re dove, al termine della funzione, sia i canonici, sia i can- tori ricevevano una “tazza di brodo consumato con all’in- terno  un  petto  di  cappone.  Successivamente  la  Messa venne celebrata in San Pietro. Particolarmente adorato dai romani il Bambinello dell’Aracoeli, scolpito a Gerusalem- me  su  legno  d’ulivo  del  Gethsemani  dal  un  francescano nel XV secolo, custodito  nella basilica di Santa Maria in Aracoeli in Campidoglio. Dal sacro al profano. Una caratteristica romana è rap- presentata  dal  “Cottio”,  una  sorta  di  mercato  del  pesce all’ingrosso (ed anche al dettaglio), nato nel 542 nella zona della pescheria, oggi forse via in Piscinula, che rappresen- tava  un’attrazione  particolare  per  i  romani.  Alti  prelati, nobili  signori  e  plebei  si  ritrovavano  alla  “vigilia”  della Vigilia di Natale, gomito a gomito, per assistere alla ven- dita  del  pesce  appena  scaricato  dai  barconi  attraccati  al porto  di  Ripa  grande,  e  alle  dispute  tra  i  venditori  e  gli acquirenti.  Questi  ultimi,  in  gran  parte  erano  cuochi  di nobil case, bottegai, albergatori e tavernieri che cercavano di accaparrarsi i pezzi più pregiati o la specie di pesce più richiesta (il cefalo), per accontentare i loro signori, i clien- ti e gli avventori.   E, visto che siamo entrati nella vigilia, vediamo cosa appariva sulle tavole dei romani. Va ricordato che un seco- lo fa c’era vigilia stretta: cioè non si faceva colazione e, per pranzo, c’era ben poco: pane, minestra di verdure e frutta. La cena si consumava alle venti in punto, per dar modo a tutti di poter raggiungere le varie basiliche o San Pietro ed assistere alla funzione della Notte Magica. La cena era, logicamente a base di pesce. S’apriva con una serie di antipasti preparati con alici marinate, aringhe affumicate, caviale (rosso o nero), ostriche, soutè di cozze, vongole  o,  per  i  tavoli  più  modesti,  telline  raccolte  ad Ostia. Non mancava mai l’anguilla carpionata o in salsa di capperi, il capitone ed il cefalo bollito. Con il suo brodo si cuocevano  i  quadrucci,  o,  come  primo  piatto  c’erano  i broccoli cotti con l’arzilla oppure, per chi non poteva fare a meno della pasta, le fettuccine con le acciughe, meglio, però, gli spaghetti col tonno. Ancora pesce per secondo: dal baccalà in umido alla romana, a quello fritto, in guaz- zetto o in agrodolce. E le seppie con i piselli, alla romana, anguille  al  lauro,  i  barbi  (pesci  di  Tevere),  al  forno.  Per contorno i broccoli lessi, la cicoria, le puntarelle, zucchine marinate. Niente dolce, era vigilia stretta. Il pranzo di Natale, dopo la funzione in San Pietro, s’a- priva con gli antipasti a base di pesce e di carne, faceva seguito  un  brodo  in  tazza  consumato,  i  cappelletti  in brodo  ed  il  pasticcio  di  maccaroncini  con  carne  tritata. Lesso  di  cappone  e  gallina  davano  il  via  alla  fila  dei secondi  piatti  in  cui  primeggiava  il  famoso  fritto  alla romana  composto da mele, zucchine, melanzane, brocco- li,  carciofi,  cervello    e  animelle.  Poi  arrosti  di  manzo, cotolette a scottadito pesce in salsa o al tegame (baccalà). Pangiallo e torrone “mollo con i pistacchi” chiudevano il pranzo di Natale. Il vino? Dei castelli, il cannellino e il dolcetto di Olevano Romano. (GFP) La sua storia – Ida Brini –